Teheran, 26 marzo 2019

Il cielo è nuvoloso, ma appena esco inizia a piovigginare. Pazienza, non mi va di tornare indietro a prendere l’ombrello. Spero tanto che compaia il sole, come qualcuno ieri aveva previsto.

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La Moschea Jameh

Niente, comincia a piovere a dirotto e qui, a Tehran, l’acqua della pioggia non scorre via, ma si ferma lungo i bordi della strada e dei percorsi pedonali, formando delle grandi pozzanghere, difficili da evitare. La zona dove sta il mio ostello si trova nei pressi del bazaar e per raggiungerlo cammino su una vasta zona pedonale, con delle file di alberi ai lati e delle fioriere disposte un po’ dappertutto. Il bazaar è vastissimo, ma quasi tutte le serrande sono chiuse per il Nawruz, il Nuovo Anno iraniano.

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Preghiera nell’area riservata alle donne della moschea.

I festeggiamenti, mi dicono, andranno avanti per un’altra settimana ancora, ma già da domani numerosi negozi riapriranno. Accanto al bazaar, trovo una moschea, la Jameh Mosque, che porta lo stesso nome di questo mercato. Il bazaar è suddiviso in zone, con diversi nomi, e ogni parte è collegata con dei viottoli interni, che percorrono tutto il mercato. Con tutti i negozi chiusi e senza la gente, però, la zona è desolata.

la moschea Jameh all'Amol Sassanid bazaar, i secolo a.D. restaurata durante regno dinastia ajar.

La Moschea Jameh

Un venditore di tappeti mi dice che lui è lì perchè ha bisogno di lavorare e non può concedersi la vacanza, come gli altri. Esco sulla strada principale: sta piovendo a dirotto e quasi, quasi me ne torno in ostello a leggere. Lì, accanto c’è un’altra moschea ed entro a visitarla. Qualcuno mi accompagna verso l’entrata sul retro, dove c’è la zona riservata alle donne. Qui, ci sono i figli di una giovane che stanno giocando animatamente e due anziane assorte in preghiera. Mi fermo nella prima stanza dove stanno i due bambini e le due anziane. Più in là ci sono altre sale di preghiera e la madre dei bambini probabilmente sta là dentro. Una delle due donne, ad un certo punto, inizia a protestare, ad alta voce, per il disturbo che le stanno arrecando i due bambini e la madre viene a riprenderseli.

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Moschea nei pressi del bazaar.

La moschea è ricca di cristalli e piastrelle in maiolica ed ha il pavimento in marmo ricoperto da preziosi tappeti. Arrivano delle altre donne: una madre con due giovani figlie. Sono di una città del Nord-Est dell’Iran e sono qui per i festeggiare il Nowruz, come tanti altri. Mi invitano ad uscire per mostrarmi un’antica tomba in pietra, esposta in una stanza recintata del cortile interno della moschea. Lì fuori ci sono anche il marito della donna, un generale, e il figlio di 23 anni, studente di medicina. La tomba ha 250 anni, mi dicono, e contiene la salma di un prelato, particolarmente buono e amato da tutti.

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Il Golestan Palace.

La famiglia, dopo una sequenza di selfie sotto la pioggia, mi accompagna, fino all’entrata del “Golesan Palace” una delle residenze reali più lussuose dell’Iran. L’ingresso è costoso, ma è affollatissimo di iraniani.

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Il giardino Golestan.

Il palazzo è costituito da maestosi edifici disposti intorno ad un curatissimo giardino. In questo luogo sorgeva, in precedenza, una cittadella safavide, ma lo scià Nasser al-Din, che regnò dal 1848 al 1896, decise di far costruire lì un edificio simile a quelli che aveva visto durante un suo viaggio in Europa. Lo sfarzo che lo caratterizza è immenso. Marmi, maioliche, cristalli, specchi, vetri colorati, alabastri, dipinti e cesellature spaziano ovunque.

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Trono in alabastro, particolare.

C’è la “Veranda del trono di marmo”che serviva per le udienze. Aperto su un lato e rivestito di specchi, il salone contiene un trono sorretto da figure umane, costruito nel 1800, con l’alabastro, proveniente da Yazd, sotto il regno di Fath Alì. In questa sala venne incoronato anche lo scià Reza, nel 1925.

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La Nicchia di Karim Khan Zhand.

Poi, c’è la “Nicchia di Karim Khan Zhand”, una specie di terrazza elevata, l’unica parte rimasta di un edificio del 1759, utilizzata, in particolare, dallo scià Nasseral-Din per fumare il “galyan”, la pipa ad acqua della tradizione turco-iraniana. In questa terrazza c’è ora anche la sua tomba. Diverse stanze del palazzo sono ora adibite a museo ed ospitano opere d’arte di epoca qagiara, ritratti degli scià e scene di vita quotidiana dell’Iran ottocentesco.

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Interno del palazzo Golestan.

Poi, tra le varie stanze, c’è la “Sala degli specchi”, costruita tra il 1874 e il 1877, che ospitava il Trono del Pavone. Il palazzo è enorme e le sale si susseguono con esposizioni di doni ricevuti dai vari scià, di arredi, orologi, vasi e quadri.

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Particolari del palazzo Golestan.

I pavimenti e i rivestimenti in maiolica sono splendidi. Esco dal palazzo che sta piovendo ancora a dirotto e torno in ostello grondante d’acqua. Nella sala da pranzo incontro di nuovo tre donne che avevo già intravisto ieri: una di 27 anni, l’altra di 37, una ragazza di 16 anni e un bambino di 5 anni.  Sono di Esfahan e viaggiano in auto, per la prima volta da soli. Mi propongono di andare insieme a loro a visitare la “Milad Tower”, la grande torre che sta alla periferia della città, a circa 8 Km da Teheran.

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Interno della Milad Tower.

La “Milad Tower” è stata inaugurata nel 2008 ed è la sesta tra le torri più alte del mondo. Misura 435 metri di altezza ed è suddivisa in 12 piani. Sulla cima e al piano terra ci sono diversi fast-food, un centro commerciale ed anche un hotel di lusso. Il parcheggio si estende su un’area di 27.000 mq.

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La lunga fila per salire in ascensore sulla torre.

La base della torre ha la forma ottagonale, una caratteristica dell’architettura persiana. Il posto è affollatissimo di iraniani che fanno lunghe file in attesa dell’ascensore per salire in cima alla torre e poi, un’altra lunga fila per ridiscendere. La torre è controllatissima ed è necessario acquistare il biglietto per accedervi.

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In posa per la foto con il ragazzo travestito da pupazzo.

La torre è attrezzata di servizi di ogni genere: fast-food, parchi gioco, salotti, fontane zampillanti, luci colorate e musiche. Più in là, all’esterno, c’è anche una vasta zona mercato. Nel salone, incontriamo un simpatico ragazzo travestito da pupazzo, sempre in attesa di posare per le foto con i turisti. E’ molto tardi, sono circa le 22:00.

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Vasi e luci della Milad Tower.

Saliamo sulla cima della torre dopo una lunghissima fila: il paesaggio che si estende su Teheran illuminata è immenso e stupendo. Qua e là, tutt’intorno, una miriade di canocchiali consentono di esplorare le zone lontane. Più sotto, qualche sala con delle esposizione di vasi e ceramiche, vuota.

Panorama dalla torre

Panorama notturno su Teheran, visto dalla Milad Tower.

E’ mezzanotte ormai. Con le mie nuove amiche ceniamo nel fast-food che sta nell’interrato e ci avviamo verso l’auto. Ci siamo disorientate. La zona dei parcheggi è più vasta e complessa del previsto, ma con l’aiuto della gente riusciamo a trovare l’auto e a rientrare.

Da Kashan a Teheran, 25 marzo 2019

Oggi piove! E’ il primo giorno di pioggia, così intensa e continua, durante tutta la giornata, che incontro, in questo viaggio. Alle 11.30, il marito della titolare dell’agenzia di viaggi mi accompagna al Terminal, dove partono gli autobus per Teheran. Ha 40 anni, è piccolo, grasso e tozzo. Il suo ruolo all’interno dell’agenzia è un po’ quello di assecondare il lavoro della moglie, rimanendo ai margini. Ha avuto, da poco, un incidente e il muso della sua auto è tutto sfasciato, ma pare che l’assicurazione lo risarcirà. E’ un uomo triste, annoiato e probabilmente depresso. Mi parla molto del “galian” il fumo con il narghilè, che pratica abbastanza spesso. Il suo più grande desiderio, però, sarebbe quello di poter bere, insieme a me, del whisky. Mi dice che forse domani verrà a Teheran per delle pratiche da sbrigare e, se gli sarà possibile, mi accompagnerà a visitare la città. Mi scrive il suo numero di cellulare: non ha internet. Dopo la partenza, lo chiamo per conoscere il prezzo del taxi per raggiungere l’hotel di Teheran: mi risponde la moglie, direttamente dal cellulare del marito. Il taxista di Teheran è simpatico, parla due-tre parole d’inglese e mi porta lo zaino grande fino in camera. Più tardi mi accorgerò che mi aveva chiesto il doppio del prezzo. L’alberghetto è semplice, pulito e molto accogliente. Costa 8,00 euro per notte ed ha il bagno interno alla stanza. All’entrata ci sono tre sportelli: uno per ogni hotel dello stesso edificio; molto probabilmente della stessa scala, ma situati in piani diversi. Sono circa le 17:00. Faccio un giro sotto la pioggia e utilizzo per la prima volta l’ombrello che mi son portata nello zaino, per oltre due mesi, senza mai averne bisogno. Sono affamata, ma qui è quasi impossibile, per me, trovare dei cibi che mi piacciano. Sono anni ormai che non mangio carne , e qui, in Iran, è difficile trovare dei piatti alternativi. L’altra sera, al ristorante dell’hotel di Kashan non ho avuto altra scelta che delle zucchine farcite con le prugne, cucinate all’agrodolce. Un piatto terribilmente nauseante, per me, ed anche costoso. La sera prima, in un altro ristorante, per lo stesso prezzo, ho preso una specie di frittata di spinaci, acquosa ed insapore. I cibi che gradisco di più qui, in Iran, sono i “felafel”, le patate fritte, la minestra verde con gli spaghetti chiamata “ash”, i funghi fritti e il miscuglio di granoturco lesso, riso e formaggio fuso. Le colazioni degli hotel, per me, sono a base di marmellata, miele, pane, biscotti, yoghurt, caffè con latte se c’è, oppure del the. La maggior parte delle persone, per la colazione, sceglie: delle uova sode, delle verdure, dei formaggi e il the come bevanda. Rientro all’ostello, con gli abiti inzuppati d’acqua. Mi metto a scrivere il diario sul tavolo della sala da pranzo. Vorrei trovare una conferma sul nome della zuppa verde, ma nessuno capisce quello che chiedo. Il ragazzo che sta al banco delle bibite capisce che vorrei cenare con la minestra, altri clienti non comprendono cosa voglio sapere. Il ragazzo del banco si fa in quattro per trovare il traduttore su internet. Poi, mi fa parlare, ma ancora, nonostante la traduzione, non riusciamo a capirci. Finalmente arriva uno dei tre manager dell’hotel, in ciabatte da casa. E’ un ragazzo di 27 anni, magro, annoiato, triste e depresso, ma è l’unico che parla l’inglese. Lui, oltre alla spiegazione del corretto nome della minestra verde, che si chiama “ash”, mi dirà che qui in Iran non insegnano nessuna lingua straniera nelle scuole pubbliche ed è per questo che pochissimi parlano l’inglese. Lui è del Kurdistan iraniano e vive praticamente qui, nell’hotel. Ha frequentato l’università di Teheran ed è laureato in informatica, ma i suoi studi si sono svolti solamente nella lingua persiana. L’inglese l’ha imparato per conto suo, ma non lo sa scrivere correttamente. Questo giovane, mi parlerà a lungo anche del suo desiderio di uscire dall’Iran per andare a lavorare altrove. Lui dice che la situazione politica qui è molto restrittiva per chi non ha denaro. Per ottenere un visto lavorativo, di un anno, per l’Europa, servirebbero circa 10 mila euro. Non ho capito bene se sia possibile ottenere il visto dal governo legalmente, pagando quella somma, oppure se esista soltanto l’opportunità di versare quei soldi per un matrimonio combinato con una straniera. Il giovane, mi racconta anche che qui a Teheran è vietato fumare il “galian”, il classico “narghilè” turco, bere alcolici ed anche incontrarsi con una ragazza prima del matrimonio. Pena l’arresto, secondo quanto mi riferisce questo manager.

Abyaneh (Iran), 24 marzo 2019.

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Abyaneh, 24 marzo 2019. Negozietto tra le vecchie case.

Oggi vado ad Abyaneh, un antico paese arroccato ai piedi del Monte Karkas, alto 3899 metri. Abyaneh, sta a 2500 metri di altitudine, a Sud-Ovest di Kashan, la cittadina dove sto ora. Il villaggio è sorto almeno 1500 anni fa, in una zona fredda, con dei lunghi inverni gelidi, ma in una posizione molto ben soleggiata.

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Venditrice locale.

Abyaneh, difatti, sta tutto esposto ad Est, proprio allo scopo di usufruire del maggior numero di ore di sole, durante tutto l’anno. Non ci sono mezzi pubblici per Abyaneh, che sta ad un’ottantina di Km da Kashan, e lo posso raggiungere soltanto in taxi, al costo di 5 dollari, compreso anche il ritorno.

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Muri e case di Abyaneh.

Per arrivare lassù, con il taxista che non parla inglese, passiamo attraverso una lunga strada desertica, con le montagne che spiccano altissime, in lontananza, cariche di neve. Poco dopo Kashan, passiamo davanti ad un piccolo aeroporto che svolge soltanto due voli settimanali, uno verso la costa meridionale e l’altro in un’altra città, a Nord dell’Iran. Lungo la strada, incrociamo qualche gregge e vediamo dei suggestivi buchi, scavati nella roccia, utilizzati come riparo per gli animali.

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Abiti tipici di Abyaneh.

Ad un incrocio, in un’ampia zona recintata, compaiono i reattori di una centrale nucleare, con diversi tralicci che l’attraversano e la presenza di militari tutt’intorno. E’ una bella giornata di sole e lungo la strada, a tratti, si vedono delle zone verdi, animate da auto ferme in alcune aree, con accanto i gruppi intenti a consumare il tradizionale pick-nick iraniano. Anche se fa freddo, la gente, qui, rimane all’aperto, a cucinare, pranzare e chiacchierare, fino a tardi. Qua e là si scorge qualche albero in fiore, ma la maggior parte dei cespugli che si intravedono sulla montagna e ai bordi della strada, sono ancora spogli.

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Giovani che vendono l’ash, la minestra verde.

Arriviamo ad Abyaneh. Il tempo di un’ora e mezza messo a disposizione dal taxista è davvero poco e riesco ad esplorare soltanto la strada principale del paese, quella che scorre in basso, in orizzontale. Abyaneh è un villaggio con diverse abitazioni fatiscenti, ma con molte altre, la maggior parte, rimaste ben conservate attraverso i secoli. Il paese è conosciuto dagli iraniani come “il museo rosso” per il colore rossastro delle sue case.

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Abyaneh, 24 marzo 2019. Sala da the all’aperto.

Abyaneh è anche denominato “il museo vivente”, per le sue tradizioni, la sua lingua e il modo di vivere della gente, rimasti integri nei secoli. Le sue case, i muri e le stradine sono state costruite in mattoni crudi, di fango rosso, con finestre e ballatoi in legno, lavorati a graticcio. Si possono vedere anche diversi pannelli traforati, costruiti con il fango essicato al sole, utilizzati per lasciare passare l’aria, in alcune pareti delle case.

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Donna di Abyaneh.

Durante la stagione estiva il paese si anima per la temperatura particolarmente fresca che lo caratterizza e gli abitanti di un tempo, ritornano nelle loro case, da Tehran e dalle città dove abitano, durante il resto dell’anno. Ad Abyaneh risiedono soltanto 200 persone, ma durante l’Estate la popolazione raggiunge i 1500 abitanti.

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Venditori locali.

Negli ultimi anni sono stati costruiti degli hotels che si affacciano ai margini del paese. All’interno, sulla stradina principale, ci sono diversi negozi: di scialli, chador fiorati, vasi di ceramica, abiti tradizionali, sale da the e ristoranti. Nei cortiletti e sui gradini delle case ci sono molte persone del posto che vendono marmellate, miele, the, erbe, mele e susine essicate, foular e chador tipici del luogo. Sotto un portico e qua e là, degli altri abitanti vendono la minestra verde con gli spaghetti chiamata “ash”.

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Donne di Abyaneh.

La moschea che sta qui, su questa via, è piccola ed è molto antica. Pare sia una delle più belle costruite in Iran alle origini della religione islamica. E’ divisa in due parti: una per la stagione estiva e l’altra per quella invernale ed ha una zona riservata agli uomini ed un’altra per le donne.

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