Enfasan, 19 marzo 2019

E’ una splendida giornata di sole e la temperatura è tiepida. C’è molta gente in giro, già dal mattino, come se fosse un giorno di festa. Dove inizia il percorso pedonale della Charbagh street, sul piazzale, studenti e sudentesse di un college stanno cantando in coro, guidati da un maestro.

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Festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno sulla Charbagh street.

Più su, lungo la parte pedonale della stessa via e ai lati, si vedono delle rappresentazioni di teatro e filastrocche eseguite da alcune scolaresche della scuola primaria. In mezzo alla Charbagh street, un omone con una maschera sul viso, vestito di rosso, una specie di Babbo Natale, sta sollevando l’entusiasmo della gente che si accalca intorno a lui, per scattare delle foto e dei selfie. Chiedo ad un ragazzo le motivazioni di queste rappresentazioni e lui mi risponde che da oggi e per tre giorni ci saranno i festeggiamenti che segnano la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera. E’ il Chaharshanbe Suri, un festival iraniano che segna l’arrivo del “Nowruz”, il nuovo anno iraniano. Il culmine dei festeggiamenti sarà il 21 marzo e verranno fatti esplodere numerosi fuochi d’artificio. Lungo la via, però, ho già sentito diversi improvvisi botti che mi hanno fatto sobbalzare per l’intensità del loro rumore.

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Enfahan, Charbagh street, 19 marzo 2019. Donna seduta su una panchina.

Oggi, quindi, è una giornata lavorativa, ma diversa gente è arrivata ad Esfahan da altre città, per l’occasione del “Nowruz”. Cammino fino alla fine della Charbagh street e attraverso il ponte sul fiume Zayandeh, il Si o Seh, uno dei cinque ponti storici di Esfahan. Il ponte di Si o Seh l’ha fatto costruire Allahverdi Khan, uno dei generali favoriti dallo scià Abbas I, tra il 1559 e il 1662.

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Il Ponte Si o Seh sopra il fiume Zayandeh, in secca.

C’è parecchia gente anche qui sopra, ma dalle arcate che si aprono verso i due lati si possono scorgere diverse persone anche sotto, che passeggiano sul letto del fiume, completamente in secca. Sia al di qua che al di là del ponte si aprono dei vasti parchi dove diversi gruppi di famiglie , sedute sull’erba, stanno facendo dei silenziosi pick-nick. Appoggiata su un fornello, in ogni gruppo, sta bollendo una specie di teiera di alluminio.

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Sotto le arcate del Ponte Si o Seh.

Anche sulle panchine c’è diversa gente seduta, per lo più giovani. Una chiromante anziana sta leggendo la mano ad una ragazza; più su, un’altra donna, molto giovane, pur non parlando inglese, con dei gesti, chiederà anche a me di leggermi il futuro.

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Sotto il ponte sul fiume Zayandeh.

Mi siedo su una panchina a guardare la planimetria che mi hanno dato all’ostello, sulla quale il manager mi ha segnato i posti interessanti da visitare. Qui vicino c’è il quartiere armeno di Jolfa, con la chiesa-museo dedicata a San Giuseppe di Arithmatea, il discepolo che prese il corpo di Gesù dalla croce.

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 Jolfa, il quartiere armeno di Esfahan.

Chiedo delle informazioni, con le difficoltà di sempre, ma una donna, musulmana, mi accompagna fino là. La chiesa è ben distante, molto più lontana di quella che sembrava guardando la mappa. La donna, mi parla soltanto con qualche parola d’inglese: si chiama Farah, ha 43 anni e non si è mai sposata. Lavora come impiegata ed abita da sola. Vorrebbe sposarsi, ma non con un iraniano. Insieme, attraversiamo le vie di questo ricco quartiere, abitato sia da armeni che da iraniani. La zona è composta da palazzi nuovi e ben curati, con diverse auto lussuose parcheggiate ovunque, ma anche con vaste isole pedonali, attrezzate di panchine e contornate da negozi e fast food.

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Incontri nel quartiere armeno di Jolfa.

Il quartiere armeno di Esfahan risale al periodo dello scià Abbas I che accolse la comunità cristiana che arrivava dalla città di Jolfa, una città che sta sul confine settentrionale attuale dell’Iran, e la trasferì qui, chiamando il villaggio “Nuova Jolfa”. Il sovrano era molto interessato a questo popolo di mercanti, imprenditori e artisti e, con la sua disponibilità, voleva assicurarsi i servigi di tutti i cristiani armeni. Oggi, qui, ci sono diverse chiese armene e un antico cimitero utilizzati da una comunità cristiana di crca 5000 persone.

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Museo della chiesa di San Giuseppe di Arimathea, 19 marzo 2019. Stampa in un antico libro sacro.

Arriviamo alla chiesa di San Giuseppe di Arimathea, collocata all’interno della vasta zona pedonale. Qui, Farah estrae una tessera dalla borsa e aquista un biglietto con la riduzione per me: non vuole assolutamente essere rimborsata e mi lascia per recarsi al lavoro. La chiesa cristiana ortodossa di San Giuseppe di Arimathea è stata costruita tra il 1648 e il 1665 con soltanto del materiale essicato al sole e grazie al supporto dei sovrani della dinastia safavide. La Kelisa-ye Vank è la chiesa armena più antica di tutto l’Iran: l’interno, riccamente decorato, si caratterizza per l’insieme armonico di mescolanze di stili.

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Affreschi con scene del Vecchio e Nuovo testamento all’interno della chiesa di San Giuseppe.

Troviamo, difatti, sia le piastrelle in maiolica con le decorazioni islamiche sia quelle con scene cristiane. Gli affreschi dai vivaci colori, rappresentano scene dell’Antico e del Nuovo testamento e sono stati restaurati di recente. Disposto su due piani c’è un ricco museo con una documentazione, anche fotografica, dello sterminio subito dal popolo armeno ad opera degli ottomani. I fatti, risalenti al 1915, hanno causato un milione e mezzo di vittime. Una lapide che ricorda questo eccidio è esposta anche anche nel piazzale interno della chiesa. Nel museo, seguono eposizioni di ritratti, libri, dipinti, piastrelle, costumi tipici, tovaglie, utensili domestici e ornamenti sacri, orologi, specchi, pietre incise realizzati in un periodo che va dal XVII al XVIIII secolo.

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Il parco sul lungo fiume Zayandeh.

Torno verso l’ostello attraversando il parco lungo la riva del fiume, più affollato che mai, di gente ancora impegnata in lunghi pick nick o distesa sull’erba a riposare. Sono oltre le 17:00: sono stanchissima e affamata.

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Charbagh street al tramonto.

Riattraverso il fiume Zayandeh sul suo letto asciutto, sotto gli archi del Ponte Si o Seh e torno nell’affollata Charbagh street a cercare un posto dove rifocillarmi.

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Esfahan, 18 marzo 2019

Oggi splende il sole e la temperatura è più mite, rispetto a ieri sera.

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Donne e bambina in burqa lungo la Chahar Bagh road

Percorro la Chahar Bagh road e giro a sinistra verso la grande piazza Naqsh-e Jahan. Anche questo tratto di strada è pedonale, come il proseguimento della Chahar Bagh. Qui passano soltanto delle rare biciclette e i mezzi elettrici che trasportano le persone che non possono o non vogliono camminare. Poco prima di arrivare alla piazza, incontro un numeroso gruppo di ragazzi e uomini con in mano o appoggiati ovunque dei pacchi di banconote per il cambio.

Il cambio dei soldi lungo la strada

Il cambio dei soldi lungo la strada  pedonale che porta alla grande piazza.

Uno di loro mi dice che qui, per lui, è l’unico modo qui guadagnare qualcosa, dal momento che manca qualsiasi possibilità di lavoro. E’ molto strano: apparentemente Esfahan sembra una città ricca.

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Uno dei tanti banchetti con i soldi per il cambio.

Ci sono numerosi negozi e ristoranti, sempre affollati di gente che acquista capi di abbigliamento e gioielli e non si vedono mendicanti in giro. Eppure, evidentemente, esiste anche quest’altra realtà, quasi del tutto, invisibile. Arrivo nella Piazza Naqsh-e Jahan. Il nome significa “modello del mondo”, ed è stata costruita durante il regno dello scià Abbas il Grande, nel 1602. L’idea del sovrano era quella di rappresentare un modello di mondo ideale, e lo è.

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Aspetti della Piazza Naqsh-e Jahan.

C’è gente sul prato che fa il pick-nick, altra che parla o passeggia nei lunghi viali pieni di piante e fiori. La piazza è enorme ed è contornata da una serie di costruzioni risalenti allo stesso periodo, adibite a negozi e abitazioni.

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La Piazza Naqsh-e Jahan. Le carrozze.

Intorno ai viali più ampi girano in continuazione delle suggestive carrozze a cavallo, utilizzate, in continuazione ed in particolare, dalle famiglie con bambini piccoli. In fondo, rivolta verso la Mecca, c’è la Masjed-e Shah, la moschea più imponente di tutto l’Iran.

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La Masjed-e Shah, interni.

Costruita nel 1611 e terminata nel 1629, sempre durante il regno dello scià Abbas, la moschea è giunta fino a noi pressoché intatta.

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Masjed-e Shah. Particolare dell’entrata riservata alle donne.

Di fronte, all’estremità opposta alla Masjed-e Shah, si trova la grande porta del Bazar-e Bozorg, uno dei mercati più antichi dell’Iran. Il suo interno è un labirinto di vicoli che si diramano in varie direzioni.

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L’ entrata principale al Bazar-e Bozorg.

I soffitti sono a forma di piccole cupole, ognuna con un’apertura all’estremità per far filtrare la luce. Le parti più antiche di questo bazar si trovano vicino alla moschea ed hanno oltre mille anni. La maggior parte delle strutture, però, è stata costruita nel XVII secolo, sempre durante il regno di Abbas. All’interno del mercato ci sono diversi negozi pregiati e delle grandi zone interamente dedicate all’esposizione e alla vendita dei tappeti.

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Architettura del Bazar-e Bozorg.

Su un lato della piazza c’è un palazzo, il Kakh-e Chehel Sotun, del quale, la prima documentazione scritta della sua esistenza risale al 1614. Sull’altro lato c’è un’altra moschea che, da quanto mi racconta un giovane, veniva utilizzata soltanto dalle donne dello scià.

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Preghiera delle donne nella parte della moschea loro riservata.

Visito la Masjed-e Shah nella parte riservata alle donne. E’ l’ora della preghiera e le donne, rigorosamente coperte da abiti e velo quasi sempre neri, arrivano lentamente e si concentrano subito su quello che sta predicando una voce maschile che pare registrata. Le donne s’inginocchiano, si piegano portando la schiena sul davanti fino a toccare con il capo il pavimento. Si rialzano e poi di nuovo ripetono gli stessi movimenti, secondo quello che dice la voce del personaggio invisibile.

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La preghiera delle donne della Masjed-e Shah.

Mi sposto dall’altra parte della piazza e, mentre sto ammirando il portale del bazar mi si avvicina un ragazzo vestito in modo elegante. E’ uno studente di legge ed è interessato al mio Paese di provenienza. Un altro ragazzo lavora per un negozio di tappeti e la sua curiosità è finalizzata al suo lavoro, cioè a portarmi dal suo principale.

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Una piccola parte della Piazza Naqsh-e Jahan

Un uomo mi offre dei pinoli per parlarmi del suo periodo di lavoro in Germania, terminato, a suo dire, per la mancata estensione del visto. Anche altri giovani fanno questo lavoro di procacciare i clienti per i negozi lì accanto. L’approccio avviene chiedendo delle notizie sulla provenienza del turista o avvicinandosi a loro fornendo delle informazioni sulla storia di Enfahan per poi cercare sempre di portarli a visitare i punti  vendita per i quali lavorano.

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Incontro tra le panchine della zona pedonale, nei pressi della Piazza Naqsh-e Jahanna.

Di sera, rimango sulla Chahar Bagh e la percorro per tutto il suo lungo tratto pedonale fino ad intravedere uno degli storici ponti sul fiume Zayandeh, una parte di Enfahan che devo ancora esplorare. Fa freddo e ho le mani congelate. Qui, quasi nessuno indossa i guanti e non ne vedo esposti nei negozi. Vedo due donne intente a guardare degli abiti: una delle due porta dei guanti beige. Mi avvicino loro per chiedere dove potrei comprare quel capo, divenuto così prezioso per me. La più giovane, probabilmente la figlia dell’altra donna, parla un perfetto inglese. Entrambe mi accompagnano in un negozio lì accanto e mi aiutano a scegliere un semplice paio di guanti. Costo: 70 centesimi di euro.

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Da Yazd a Isfahan o Esfahan, 17 marzo 2019

Stanotte ho sognato che da Sofia, la capitale della Bulgaria, ero tornata a Udine, in aereo, ma soltanto per una brevissima visita. Stavo di fronte al teatro Palamostre, in un grande parco verde con delle panchine sparse qua e là. Lì c’erano le persone che solitamente fanno teatro insieme a me, ma c’era anche della gente nuova che stava suonando e provando delle performances. Il parco era molto vasto e io cercavo Rita Maffei, la mia regista, per salutarla. E l’ho trovata e vista nel sogno in modo molto chiaro. Lei stava valutando la proposta di far mettere dei servizi igienici a disposizione della gente che frequentava questo luogo. Qualcuno, inoltre, mi stava proponendo di alloggiare lì, all’interno del teatro. Io, però, volevo tornare a casa mia. Quando sono entrata nell’appartamento, ho trovato un po’ di sabbia sparsa sul palketto, ma tutto il resto era in ordine.

Oggi mi sposto e da Yazd vado ad Isfahan o Esfasan. Il taxista che mi accompagna al terminal, mi parla delle difficoltà economiche che sta attraversando l’Iran e del bisogno di emigrare che c’è, in tutto il Paese. Mi parla anche dei suoi due figli, entrambi studenti universitari e per i quali nutre molte speranze per il loro futuro. Mentre aspetto l’autobus per Isfashan parlo con una ragazza laureanda in medicina. Dopo la laurea, si occuperà della ricerca sul cancro venendo a studiare e lavorare in Europa, forse a Berlino, oppure a Monaco. Il percorso da Yazd a Isfahan si staglia per lunghi tratti in una zona deserta e per altri con la vista delle montagne in lontananza. Sui bordi della strada si vedono numerose fabbriche che si alternano a dei gruppi di negozi e case. A tratti, ci sono dei campi coltivati, che s’intensificano con serre, terre arate e risaie quando arriviamo nei pressi di Isfahan. Entrando in città si vedono dei grandi palazzi e numerosi negozi già illuminati e un gran traffico di auto che si muove lentamente. Qui e piovuto parecchio da poco: le strade sono inondate d’acqua con vaste pozzanghere visibili, qua e là. Fa freddo e sta soffiando un vento gelido. Trovo da dormire in un ostello: qui i prezzi degli alloggi sono più alti di Shiraz e Yadz. A parità di prezzo, il livello e il servizio offerto sono molto più scadenti.

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La grande zona pedonale, nellla parte centrale di Isfahan.

Esco dall’ostello che è quasi sera per fare un giro nei dintorni. Chiedo delle informazioni sulla direzione verso il centro storico, ma né giovani né anziani capiscono il significato di “old city”. Un negoziante mi prende la mappa dalle mani: è scritta in piccolissimi caratteri persiani e dopo un attento studio mi indica la direzione sbagliata. Entro in un negozio di articoli musicali dove ci sono dei giovani, ma non parlano nemmeno una parola d’inglese. Esco: un passante capisce che mi sto guardando intorno e mi fornisce le giuste indicazioni. Che sollievo! Passo davanti ad un edificio illuminato, un mercato al chiuso, e proseguo dritta sulla stessa via del mio ostello, ma nella direzione opposta. “E’ questa la strada principale!” mi dice un signore che parla un po’ d’inglese.

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La grande zona pedonale ella Char Bagh road.

La via pare dividersi a metà lasciando in mezzo una lunghissima piazza, uno spazio pedonale contornato da due file di alberi allineati, sotto i quali ci stanno numerosi gruppi di tavoli e sedie. Nonostante sia sera e stia soffiando un vento gelido, la zona è affollata di gente, seduta all’aperto, nelle gelaterie e nei fast-food.

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La splendida e vivace zona pedonale della Char Bagh road.

Ceno con dei felafel e delle patate fritte in un ristorantino della via e mi avvio verso l’ostello. Fa talmente freddo che ho le mani gelate nonostante le stia tenendo nella tasca della giacca. Mi fermo a guardare la gente all’esterno di un forno e il ragazzo che taglia degli spicchi di dolce e ne vende degli altri, grandi e tondi. Mi si avvicinano due ragazzi: sono due fratelli di 30 e 22 anni. Il più grande è un ingegnere elettronico che lavora per conto suo. L’altro studia musica e fa il musicista.

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Isfashan, sera del 17 marzo 2019. La Char Bhag road.

Il sogno di entrambi è quello di andare a lavorare all’estero, in Germania o anche in Malesia, ma il costo del biglietto aereo per loro è troppo alto e, mi dicono che, avranno bisogno di diversi anni di lavoro per mettere da parte i soldi necessari.