Il percorso verso Yazd, per un primo tratto, è lo stesso che porta a Persepoli. Rivedo le immagini dei martiri appese in alto sulla strada, le case dal tetto piatto, il grande parco naturale alla periferia di Shiraz e la vasta estensione di campi coltivati. Scorgo ancora greggi di pecore dal pelo lunghissimo sui bordi della strada, sotto le caserme e le lunghe recinzioni che delimitano le zone militari soprastanti. Più avanti, le basse montagne si confondono con i grossi cumuli di terra usati dalle fabbriche di mattoni e cemento. A volte compare qualche moschea e dei villaggi intorno a delle fabbriche che paiono disabitati e in disuso. Quello che si nota, in continuazione, sono i tralicci elettrici, a volte numerosi e sparsi, a volte allineati lungo la strada. A parte una centrale di trasformazione che vedrò più avanti, non riesco a capire da dove gli iraniani ricavino la corrente elettrica.
Sono le 12 e 30. All’interno del pullman una coppia di anziani apre delle sporte e estrae delle pentole. I due chiacchierano e pranzano, prendendo, con disinvoltura, il cibo con le mani e mettendolo nel pane spezzato. Nell’aria si sparge un delizioso profumo di spezie. Seduta, dietro al mio sedile, sta una coppia di australiani sui cinquant’anni. Loro evitano il mio sguardo e pare non desiderino alcuna comunicazione. Guardo il paesaggio dal finestrino. In lontananza, si scorge un’altissima montagna con un nevaio. Più avanti, altri nevai lontani, più piccoli. Ecco la neve ora farsi più vicina e dalle montagne arriva quasi fin sulla strada. Attraversiamo una vasta pianura, desertica e disabitata con soltanto le due strade asfaltate che corrono nelle due direzioni. Proseguiamo tra le montagne lontane, ora senza neve, con una fila di fabbriche ai loro piedi, distanti tra loro, ma simili nell’aspetto. Dopo, il pullman s’immerge in una zona desertica: si, è proprio il deserto! Da entrambi i lati della strada c’è soltanto un paesaggio piatto, fatto di sabbia. Poi, per un tratto, tornano le montagne basse, a momenti ricoperte di neve, a volte rocciose, con dei profili spigolosi e arrotondati che paiono figure umane. Attraversiamo una grossa città: Abarqu. Anche qui si vedono appese le fotografie dei martiri.
Yazd, 15 marzo 2019, sera. La zona pedonale.
E’ quasi sera quando arriviamo a Yadz. Dal terminal, insieme alla coppia di australiani, raggiungo, in taxi, l’hotel. La donna, durante quest’ultimo percorso mi parla un po’ di sè. E’ un’infermiera professionale, divorziata, con due figli grandi e risposata da cinque con l’uomo che sta viaggiando insieme a lei. Anche il marito attuale è divorziato ed ha due figli grandi avuti pure lui da un primo matrimonio. Il marito, si occupa di ricerca agricola, nel campo della produzione di foraggi per animali. Lui non mi rivolgerà mai la parola. In taxi attraversiamo la città. Sembra molto grande, ma ha soltanto due milioni di abitanti, uno meno di Shiraz. L’atmosfera qui mi pare più semplice e raccolta rispetto alla vastità di Shiraz. La coppia australiana scende in un hotel distante dal mio: quando ci salutiamo lascio il mio recapito telefonico alla donna, ma chissà mai se la rivedrò.
Yazd di sera. 15 marzo 2019.
Il mio hotel è situato dietro un parcheggio, in un antico stabile della città vecchia. Si entra scendendo dei gradini in mattone crudo e si arriva in un grande salone arredato con tavolini e panche-divano con appoggiati sopra degli splendidi tappeti. C’è della gente seduta qua e là: un gruppo di giovani sta giocando a scacchi, una ragazza tedesca sta leggendo per conto suo, un gruppo di portoghesi sta chiacchierando animatamente del tour che farà domani a Persepoli e Shiraz. La stanza con bagno è molto carina, confortevole e comoda.
Vetrina con dello zucchero esposto.
Esco ad esplorare i dintorni: l’hotel sta proprio in centro, accanto alla moschea Jameh e vicino ad una grande e animata strada pedonale dalla quale si diramano i vicoletti che portano ai bazar e alle vecchie costruzioni di mattone crudo. Percorro un lungo tratto della via pedonale: in fondo, dalla parte opposta alla moschea azzurra c’è una torre a pianta quadrata, con un orologio in alto. E’ buio, ma la zona è ben illuminata: quasi tutti i negozi sono aperti e ci sono numerose bancarelle sui due lati di tutta la via. La strada è molto animata da gente che fa acquisti, che entra in moschea per pregare, che cena in piedi o seduta qua e là, sui bordi della strada.
Un gruppo di ragazzi sta suonando e cantando in mezzo alla via, nei pressi della moschea e un folto gruppo di gente li sta ascoltando.
Banchetti serali nella zona chiusa al traffico.
Più su, nell’altra via, ci sono molte gelaterie e fast food affollati di gente seduta ai tavoli. Fa freddo, a momenti soffia un’aria gelida e i miei abiti sono troppo leggeri per questo clima. Prima di rientrare in hotel mi fermo a cenare, in piedi, sulla via, con una zuppa vegetale che una ragazza prende da un grosso pentolone e versa in scodelle di plastica.
Costo: meno di 30 centesimi di euro. Dalla parte opposta ci sono due ragazzi in un banchetto attrezzato per cucinare. Qui prendo un miscuglio di mais, formaggio, patatine fritte e besciamella per 50 centesimi di euro. Rientro nel salone dell’hotel e mi scaldo bevendo un the bollente in compagnia del taxista che lavora qui.