Tulu ed io corriamo velocissime verso i taxi che vanno e vengono dalla stazione mongola di Zamyn Uud al Confine di Stato: sono richiestissimi! Riusciamo a fatica ad accaparrarci un posto su uno dei camion-taxi: non c’è più tempo, bisogna fare in fretta e Tulu mi spinge sopra il cassone sollevandomi per lo zaino. Arriviamo al treno appena un attimo prima della partenza, correndo insieme al facchino che su un carretto di legno trasporta i numerosi pacchi di Tulu e il mio grosso zaino! 1 luglio 2014. Il paesaggio mongolo che vediamo dal treno è desertico, quasi lunare, fuori dal tempo. Man mano che ci avviciniamo a Ulaanbaatar si scorgono dei cavalli, sparsi qua e là, e qualche gregge di pecore, tutti sempre bel controllati dai pastori che gironzolano loro intorno cavalcando delle rozze motociclette. A Ulaanbaatar prendo alloggio in una simpatica guesthouse: il prezzo è conveniente e c’è uno spazio a disposizione per cucinare e del cibo in abbondanza per la colazione. Scopro subito che qui sei ben accetto soltanto se partecipi ai costosissimi tour organizzati dalla guesthouse stessa; se non aderisci ti dicono che dalla sera dopo non c’è più posto lì. Il mio primo giorno a Ulaanbaatar è domenica e cammino lungo la strada principale fino ad arrivare alla deviazione per il monastero Gandan Khiid.
E’ veramente incredibile quello che accade là dentro: con un banchetto collocato all’entrata delle numerose casupole in legno ci stanno i veggenti, per lo più uomini, muniti di sassolini, carte, legnetti, radici, erbe e molti altri simboli che utilizzano per leggere il futuro. L’interno è brulicante di pellegrini in attesa di accedere ad un monaco libero che celebri loro un rituale. Ogni persona, coppia o gruppetto familiare vuole risolvere il proprio problema attraverso la mediazione con la sacralità che i tanti monaci taoisti e buddhisti insieme offrono in cambio di denaro. La consultazione si svolge così: il problema da risolvere viene scritto su un foglietto che il monaco legge, chiarisce con gli interlocutori e ritualizza spesso mettendosi una maschera davanti al viso, accendendo candele e incensi, vociando canti, recitando mantra ed anche consumando bevande e cibi insieme ai convenuti. Ogni rituale si conclude con un’offerta consistente.
Mi fermo qualche giorno a Ulaanbaatar e poi, seguendo i consigli di una coppia di turisti svizzeri, mi sposto verso il Nord, a Khatgal, vicino al confine russo, a circa un centinaio di kilometri dalla città di Moron. Qui, la zona del lago Khovsgol Nuur è ricchissima di fiori selvatici e pare sia carica di una particolare energia, legata al trascendente, proveniente dal lago. Forse per questo nei villaggi intorno ci abitano diversi maestri o precettori spirituali, sia uomini che donne, chiamati guru! Prendo alloggio in un campo di yurte o gher adibito a guesthouse: il paesaggio contiene davvero un’aria di mistero, ma la famiglia che gestisce l’alloggio è molto rassicurante e tranquilla. M’incammino lungo i prati che fiancheggiano il lago e rimango affascinata dalla vista delle montagne, dai gruppi di cavalli lasciati in libertà, dalle moltitudini di yak, detti anche buoi tibetani, che pascolano in tranquillità. Li osservo stupita quando con grande calma si dirigono verso l’unica strada della zona e l’attraversano costringendo le auto a rallentare. Lungo la riva del lago Khovsgol Nuur incontro la ragazza coreana che dorme nella mia yurta e chiacchierando insieme camminiamo verso il centro di Khatgal. Lei sta cercando della carne da cucinare, per conto suo, insieme a del riso, all’interno della yurta. Possiede tutta l’attrezzatura: un fornello a gas acquistato a Beijing, una pentola, un coltello. Mi confida che è molto più conveniente cucinare da soli che servirsi del ristorante della guesthouse. Raggiungiamo il mercato di Khatgal.
Ci sono delle bancarelle in legno chiaro, fisse e coperte da un tettuccio anch’esso in legno: sembrano delle gigantesche cassette per la frutta, poste in verticale. Le donne, in costume tradizionale, vendono chincaglierie, gingilli, pesce essiccato, erbe medicinali, latte di yak e di cavalla. Qui il latte di cavalla è molto ricercato e viene utilizzato come bevanda, spesso mescolato alla wodka. Al ritorno ci fermiamo al mercatino alimentare che sta accanto al nostro accampamento: vendono la carne di capra che la mia compagna di yurta cercava. Il giorno successivo la mia amica coreana mi lascia per un’escursione a cavallo di tre giorni che la porterà in un altro paese nell’altra parte del lago Khovsgol Nuur. Quando alla sera rientro in yurta trovo un biglietto con i suoi saluti e diverse confezioni di dolcetti coreani. A Khatgal, accanto al mercato, c’è un porticciolo e tra le vecchie navi arrugginite, forse abbandonate lì dai russi, c’è una grossa imbarcazione per turisti. Quando torno là, il giorno dopo, sento la sirena e vedo la nave pronta alla partenza per il giro del lago Khovsgol Nuur. E’ un’imbarcazione un po’vecchiotta e a bordo ci sono soltanto turisti mongoli, molti di loro vestiti con gli abiti tradizionali. Durante il tragitto di ritorno, il personale di bordo, rigorosamente in divisa, anima una specie di karaokey.
L’insieme ricorda un po’ i nostri anni ’60 ed è comunque interessante. Torno al mio campo di yurte, sono stanca e affamata; è già buio e qualche camino sta già fumando dalle casette sparse del villaggio. Prima di cena leggo un po’, ma poi preferisco parlare con i turisti che stanno nel salone del fabbricato in legno, accanto al fuoco. Tra gli ospiti c’è un affascinante e maturo medico svizzero che pratica l’ayurveda, il più antico sistema naturale per la cura e il benessere del corpo e della mente. Sta quassù da diverso tempo perché frequenta le lezioni private di una guru. Lo vedo sempre con un giovane interprete mongolo, ospite anche lui del campo di yurte o gher. Il medico ha un’auto a sua disposizione e l’interprete gli fa anche da autista. Mi racconta che sta imparando la filosofia dei guru per integrarla con la sua professione di medico privato quando farà ritorno in Svizzera. Quando gli chiedo se è un medico per la gente ricca, mi spiega che in Svizzera tutti possono permettersi queste cure perché anche le persone che svolgono lavori umili sono coperte da assicurazione. Questo posto tra le montagne è davvero magico e io non so più se ho voglia di lasciarlo o di rimanerci ancora! Cammino molto qui a Khatgal: gironzolo per il villaggio ad osservare il ritmo di vita di questa gente. Verso sera, per le strade, c’è soltanto qualche ubriaco qua e là; qui regna un gran silenzio che viene interrotto a tratti, improvvisamente, dal rombo delle grosse motociclette che riportano al paese gli uomini che lavorano nella cittadina di Moron. Alla sera fa molto freddo e sul tardi i gestori del campo vengono ad accenderci la stufa che sta al centro della casa-tenda. Il panorama esterno delle yurte con i loro camini fumanti è uno spettacolo da favola! Mi dispiace davvero lasciare questo posto, così surreale e così intenso, ma il giorno dopo, alle 10.00, quando arriva il taxi, non ci penso più e parto. Il percorso verso Moron è sempre incantevole. Questo tratto di strada è asfaltato ed è uno dei pochi in buone condizioni qui in Mongolia. Alla stazione degli autobus acquisto il biglietto per Ulaanbaatar. Non c’è alternativa: devo tornare a Ulaanbaatar e poi, da lì spostarmi. Il viaggio è estremamente faticoso per la mancanza della strada. Si viaggia tra i prati e solo a piccoli tratti su degli sterrati; le strade sono simili a dei sentieri a volte appena tracciati dai veicoli passati in precedenza. Ora la corriera si è fermata e l’autista sta facendo scendere i passeggeri. Ho capito, è successo anche all’andata: è necessario attraversare il ponte a piedi per evitare di sottoporlo ad uno sforzo che sicuramente non potrebbe reggere. Alcuni fiumi non hanno nemmeno il ponte e la corriera li attraversa immergendosi nell’acqua.
Il paesaggio è sempre, ovunque, splendido! I prati sono tappezzati di stelle alpine e le possiamo ammirare da vicino quando la corriera si ferma per consentire ai viaggiatori di soddisfare i bisogni fisiologici. Una sosta più lunga viene dedicata soltanto alla cena, in uno dei semplici ristorantini dei rari villaggi che incontriamo.
6 luglio 2014. Sono a Dalandzadgad, la cittadina a Sud della Mongolia, ai margini del deserto del Gobi. E’ ancora notte, manca ancora un’oretta perché arrivi la luce del giorno. M’incammino lungo la via principale. Qui è bassa stagione o forse il turismo è in crisi: gli alberghi lungo la via sono quasi tutti sbarrati e quelli aperti sono disadorni, poco accoglienti ed anche più costosi rispetto alle altre parti della Mongolia. Un signore in auto mi dà un passaggio e mi aiuta a cercare gli alberghi indicati sulla guida della Lonely Planet. Sono tutti chiusi, sembrano abbandonati da tempo! Mi accompagna in uno dei pochissimi hotel del centro: una desolazione! A Dalandzadgad visito il mercato: ogni bancarella prende la forma attraverso una struttura in plastica morbida. Ci sono donne e uomini che vendono vasi dove stanno racchiuse delle erbe medicinali, sacchi pieni di zucchero in grossi cristalli, forme di grasso e burro fuso, latte di cammella e di cavalla, qualche verdura. Nel piccolo piazzale del mercato ci sono pure dei ristorantini e dei negozietti, grezzi e bui, con pochi squallidi arredi, privi di finestre e vetrine, con soltanto delle strette aperture per accedervi. I negozietti hanno l’aspetto di piccoli magazzini: vendono dei capi di abbigliamento invernali, giocattoli e articoli per la casa, prevalentemente in plastica. Per fortuna c’è un piccolo supermercato abbastanza fornito dove posso acquistare qualche provvista per colazione e cena.
Le donne che si alternano alla reception dell’hotel non parlano che mongolo e sono poco socievoli. La proprietaria si vede poco; lei parla il tedesco in quanto qualche anno fa ha lavorato in un’agenzia di Francoforte. E’ molto umana e comprende il mio disagio per il nulla che offre la cittadina. Con tanta buona volontà riusciamo a comunicare: devo trovare la similitudine tra il tedesco e l’inglese per capirci, ma ce la facciamo. Mi accompagna con il suo pick up a visitare il bel teatro dipinto di rosso a Dalandzadgad e un piccolo tempio buddhista, uno stupa con le sue ruote della preghiera da far girare. Non incontriamo nessun altro all’interno di questo luogo sacro! Il giorno dopo, cammino attraverso un parco giochi di una scuola materna, apparentemente abbandonati e raggiungo il Museo del Gobi Meridionale: lo trovo molto interessante, in particolare, per i numerosi oggetti della cultura buddhista che contiene. Qui, all’entrata, incontro delle persone: una di loro dice di essere un’insegnante e parla un po’d’inglese. Si offre di farmi da guida durante la visita al museo e accetto con piacere la sua compagnia. All’uscita troviamo il suo gruppo familiare che ci aspetta per riaccompagnarmi all’hotel e andare poi insieme a fare un giretto nel deserto del Gobi. Più tardi, in hotel, grazie alla proprietaria, scoprirò che quell’approccio, così amicale e generoso, non era altro che un modo per incastrarmi in un costosissimo, improvvisato e veloce tour. Ci andrò poi, ad un tour privato, anche perché non c’è nessun’altra alternativa qui. Attraverso la proprietaria dell’hotel, sceglierò l’escursione più economica, cioè un giro privato in pick up a Yolyn An, che letteralmente significa bocca dell’avvoltoio. L’escursione consiste nel raggiungere una lastra di ghiaccio che sta a 46 km a Ovest di Dalandzadg ad: costo 50,00 euro. Il paesaggio lassù è stupendo: il percorso si svolge tra dirupi rocciosi e rigogliose montagne verdeggianti è affascinante! Lungo il sentiero si incontrano diversi mucchi di sassi con una bandierina rossa annodata ad uno stecco infilato sulla cima: sono dei piccoli stupa o forse soltanto dei semplici simboli buddhisti! La piccola lastra di ghiaccio che si raggiunge con una camminata a piedi di una mezz’oretta dal parcheggio non è nulla di eccezionale. I turisti, in genere, arrivano fin qui, con viaggi organizzati già da Ulaanbaatar perché in tutta questa zona non esiste nessun tipo di organizzazione turistica se non quella improvvisata da infurbita gente del posto. I gruppi di turisti arrivano in pick up oppure con i pullmini degli hotel, direttamente da Ulaanbaatar e fanno poi il brevissimo percorso fino al canyon a piedi o a cavallo, usufruendo delle guide che stanno lì appostate ad attenderli. L’autista del mio pick up cammina a malavoglia con me e non parla nemmeno una parola di inglese. Mi fermo un attimo alla bancarella che sta all’uscita della riserva: una signora mongola sta incidendo dei simboli su delle piccole pietruzze che infila poi su dei cordoncini colorati. Saranno le uniche cose che porterò con me da lassù! Sulla strada del ritorno il taxista mi scarica ad Museo Naturale allestito tra le montagne: là dentro ci sono uova e ossa di dinosauro, e anche degli uccelli e un leopardo delle nevi impagliati. Accanto al museo ci sono tre negozi gher di souvenir: guardo la merce, ma non compro nulla, con grande disappunto dell’autista e delle venditrici. Il tutto si conclude in una mattinata sbrigativa e veloce, ma la Mongolia mi rimarrà, comunque, nel cuore. L’unica corriera per Ulaanbaatar in partenza verso sera è al completo per oggi e dovrò rimanere un altro giorno a Dalandzadgad: per fortuna mi sono portata dei libri e mi siedo un po’ qua e un po’ là a leggere! Quando mi avvio a piedi verso la stazione delle corriere, si ferma un camioncino bianco per darmi un passaggio che accetto con piacere.
Sono ritornata a Ulaanbaatar felice di rivivere l’atmosfera della città. La distanza culturale e sociale tra Ulaanbaatar e Dalandzadgat è enorme: qui la gente ti parla non solo per proporti dei viaggi truffaldini, ma con un interesse più umano e vero. In giro per le strade c’è già aria di festa per il Naadam: la ricorrenza dell’indipendenza vera e propria inizierà domani, ma già si sentono canti, suoni di clacson e si vedono sventolare le bandiere ovunque. A causa del Naadam non trovo posto nelle guesthouse economiche e sono costretta ad alloggiare in una stanza di un alberghetto misero, ad un prezzo elevato per l’occasione, da 4,00 a 20,00 euro per notte.
I festeggiamenti si svolgono con grandi afflussi di gente vestita a festa: le donne indossano abiti da gran gala sfoggiando costumi in pizzo e calzando scarpe con tacchi a spillo altissimi. Diversi uomini e alcune donne anziane indossano l’abito tradizionale mongolo. Allo Stadio si svolge la cerimonia principale con la partecipazione di gruppi e campioni sportivi. I biglietti per l’entrata sono da giorni esauriti e, quindi, preferisco tornare nell’altro punto focale dei festeggiamenti, la piazza Suhbaatar. Sarà qui che trascorrerò la maggior parte del tempo. Nella piazza sono stati allestiti diversi scenari per far da sfondo alle foto che i vari professionisti scattano alla gente. Ci sono a disposizione degli abiti d’epoca che molte persone indossano per farsi fotografare. Gli sfondi propongono ambienti diversi: si va dalla statua del fondatore dell’Impero mongolo, Gengis Khan, al Palazzo del governo, all’interno di un’abitazione d’epoca con il divanetto su cui sedersi proporzionato agli arredi del poster, costruiti in modo da rendere più realistiche le foto. Il tutto si svolge in allegria, tra vendite di cibi, voli di palloncini, noleggi di automobiline per i bambini, corse spensierate di giovani in bicicletta e tandem e tanta musica tradizionale della Mongolia. Riconosco con piacere il famoso e familiare Casatschok, il ballo della steppa.
E’ interessante osservare come questo popolo s’identifichi nel periodo del Grande Impero di Gensis Khan e voglia ricostruire la propria identità ricongiungendola, oltre che ad 808 anni fa, anche alla fondazione del primo Stato della Mongolia che risale a 2223 anni fa. Un giovane commerciante di occhiali mi racconta che le aspirazioni attuali dei mongoli sono quelle di recuperare le parti che costituivano il suo Grande Impero passato, ora divenuti territori della Cina, della Russia e anche del Kazakistan. Un altro giovane, uno studente di Ulaanbaatar che studia all’università di Beijing, mi racconta che la Mongolia è ora una Repubblica parlamentare semi presidenziale, ma è rimasta sotto il protettorato russo fino agli anni novanta. Il ragazzo mi spiega che la maggioranza degli abitanti del Paese sono poveri in quanto la ricchezza è concentrata in poche persone, molte delle quali di origine russa. Queste persone privilegiate gestiscono le grandi ricchezze minerarie della Mongolia, e godono della protezione degli uomini che detengono il potere politico.
Torno di nuovo a fare un giro fino al piazzale dello Stadio per vedere cosa succede là: all’interno stanno ancora esibendosi i campioni nazionali di wrestling, di tiro con l’arco e di equitazione. Qualcosa si riesce a sbirciare tra le aperture dei teloni e dai video postati all’esterno che trasmettono in continuazione i momenti più spettacolari delle esibizioni. Nel piazzale dello Stadio, per l’evento, si sono formate numerose stradine pullulanti di ristorantini con cibi tipici della Mongolia e di bancarelle con infiniti souvenir di ogni tipo. Oggi è il terzo e ultimo giorno del Naadam. Tutto il fermento intorno allo Stadio è scomparso; l’evento si concentra ora soltanto nella piazza Sukhbaatar, in particolare sul palco allestito accanto alle auto esposte in mostra. Tra i suv ce n’è uno in una posizione più in vista rispetto agli altri: è la Toyota che verrà assegnata fra poco, al campione di wrestling risultato vincitore. Il giorno 14 luglio riparto per Zamyn Uud che rimane l’unico percorso per ritornare, via terra, in Cina. Trovo il transito ancora chiuso per i festeggiamenti del Naadam e dovrò trascorrere la notte qui! Per fortuna stringo amicizia con Taka e Nahomi, una coppia di insegnanti giapponesi che vive in Cina e la giornata trascorre piacevolmente. Ceno con loro nel bar dell’hotel: abbiamo acquistato dei barattoli di cibo liofilizzato in un negozio e qui chiediamo di aggiungerci, a pagamento, soltanto dell’acqua bollente per poterli consumare. Questi ragazzi, giapponesi, sono molto umani ed anche molto attenti al risparmio. L’indomani mattina, concordiamo, insieme, il prezzo del pick up e ci accodiamo alla lunga fila di fuoristrada diretti al confine.