Da Hohhot mi sposto in corriera verso il confine con la Mongolia. Man mano che il pullman avanza verso il Nord, il paesaggio si fa sempre più brullo e arido. Nella regione desertica circostante si scorgono qua e là, un’infinità di gigantesche sagome di dinosauro: sono delle opere molto realistiche, collocate lì per indicare la zona dove sono stati rinvenuti i loro reperti.
Poco prima della città di Erenhot compaiono i primi gruppi di accampamenti di tende mongole, con animali, motociclette e persone indaffarate nelle varie attività. Sono i villaggi con le abitazioni tipiche della zona, chiamate yurte o gher: appartengono alle tribù nomadi delle steppe, rimaste qui a vivere, nella Inner Mongolia cinese. Durante il percorso divento amica di Tulu, una giovane signora mongola che viaggia spesso per affari lungo questo tratto. Ha 30 anni ed è spostata con un militare mongolo che presta servizio ad un piccolo valico al confine con la Cina, riservato soltanto ai mongoli. Tulu e il marito hanno tre figli e abitano alla periferia di Ulaanbaatar, in una casa unifamiliare, insieme ai genitori di lui. Lei conosce molta gente ed è pratica di tutti i passaggi che si svolgono con i mediatori per attraversare con facilità il confine. Rimarrò insieme a lei fino ad Ulaanbaatar, poi non la incontrerò più se non attraverso facebook. Ad Erenhot, l’ultima cittadina cinese prima del confine, dobbiamo fermarci una notte: il tempo necessario per incaricare un mediatore di procurarci i biglietti del treno che parte da Zamyn Uud, la prima cittadina mongola, e arriva a Ulaanbaatar, la capitale. L’unico treno, giornaliero, partirà domani alle 18:00, ormai!
Il giorno dopo, appena sveglie, verso le 6:00 il sole è già alto nel cielo: dalla finestra dell’hotel vediamo il grande parco già affollato di gruppi di persone impegnate a seguire gli esercizi di tai chi a suon di musica. Noi due, invece, preferiamo andare in giro per i numerosissimi mercati coperti cinesi, fittissimi di mercanzie di ogni genere, che i mongoli acquistano qui per rivendere poi al loro Paese. Noto che Tulu non bada a spese: fa grandi acquisti di vestiario per sé e per tutti i parenti della sua numerosa famiglia. Conserva tutti gli scontrini, compresi quelli dell’albergo e dei pasti condivisi con me. Sul grande piazzale davanti all’hotel staziona l’affollato parcheggio dei pick up animato dal discreto vocio delle contrattazioni che si svolgono tra i taxisti e i viaggiatori. Percorriamo la distanza da Erenhot al confine insieme a delle donne mongole stracariche di borse, pacchi e sacchi. Anche Tulu ne ha in abbondanza! Un attimo prima di attraversare il confine incontriamo l’incaricato del nostro mediatore che ci consegna i biglietti del treno e ci restituisce i passaporti: una perfetta organizzazione!
Arrivo a Beijing, Pechino, la sera del 18 giugno 2014 e devo districarmi sin da subito nel complesso sistema dei trasporti pubblici che dall’aeroporto portano ad un grosso snodo ferroviario, dal quale partono tutti treni che vanno nelle varie direzioni. Elena, la ragazza che mi ospita, l’ho conosciuta attraverso Couch Surfing, l’organizzazione che si occupa di scambi di ospitalità; lei mi sta attendendo alla stazione metrò di Puhuangyu: la raggiungo con il treno della linea 5 che va a Sud della città. Elena è una ragazza di quasi trent’anni e lavora come promotrice di vendita in diversi centri commerciali. Il rapporto con lei è essenziale, come l’appartamentino dove abita: un monolocale con un materasso matrimoniale in terra da dividere con me.
Beijing è una città fantastica: la piazza Tia’ Anmén si apre come un immenso deserto lastricato. Qui, nel 1989 c’è stata una grande manifestazione che richiedeva una maggiore democrazia, ma è stata soffocata con la forza e centinaia di persone sono rimaste uccise. Tutta la zona è sorvegliata da truppe di poliziotti che marciano in fila, perfettamente allineati e si spostano in continuazione da una parte a l’altra della piazza. L’architettura degli edifici e dei monumenti richiama molto lo stile sovietico, mentre i palazzi intorno ricordano lo stile della Città Proibita, cioè del complesso imperiale più grande del mondo situato lì accanto, che visiterò nei giorni successivi. Non esistono panchine per sedersi nella piazza Tia’Anmén: i gruppi di turisti, per lo più cinesi, con i loro cappellini tutti uguali, si fermano soltanto a tratti per ascoltare le spiegazioni delle loro guide e per scattare qualche foto ricordo; poi se ne vanno via rapidamente.
A Beijing rimango da Elena per quattro notti: esco di casa la mattina presto e rientro alla sera, dopo aver cenato! Anche lei, in orari diversi, segue lo stesso ritmo per i suoi numerosi impegni di lavoro. Devo, assolutamente, districarmi da sola in questa enorme città! Un giorno intero lo dedico alla visita del bellissimo ed enorme Parco del Tempio del Cielo, l’altare dove l’imperatore, in quanto Figlio del Cielo, celebrava i riti propiziatori agli dei per chiedere loro la concessione di un buon raccolto. Il Parco del Tempio del Cielo si estende su un’area di 267 ettari delimitata da una cinta muraria in cui si aprono quattro porte in corrispondenza dei punti cardinali. All’interno ci sono sempre molti turisti, per lo più cinesi, che trascorrono lì, all’ombra di un lungo porticato, in tranquillità, diverso tempo: giocano a carte, parlano, suonano, cantano e consumano in armonia i loro picnik. Una mezza giornata la trascorro a camminare tra le vie animate dell’Hutong di Nanluogu Xiang, uno dei quartieri storici riqualificati più famosi di Pechino. Passeggio con curiosità tra i numerosi vicoletti ristrutturati di Nanluogu Xiang, nome che letteralmente tradotto significa Vicolo Sud del Gong e del Tamburo. Ogni stradina dell’Hutong si presenta come un brulicante insieme di alberghi a corte, negozietti alla moda, ristoranti, gelaterie, caffè con terrazze e wi-fi. Camminando ancora, scegliendo le strade meno frequentate che si aprono ai lati della via principale, osservo le diverse case a corte risalenti all’epoca Qing, la dinastia che conquistò Beijing nel 1664 e vi rimase fino alla Rivoluzione Xinhai del 1911. Arrivo alle Torri del Tamburo e della Campana, raggiungo la piazza che porta questi due nomi uniti e mi siedo sul selciato ad osservare la folla di turisti che passeggia intorno.
Una giornata la trascorro a visitare l’immensa Città proibita. Situata nel cuore di Beijing, ma ben isolata dal resto della città da un fossato che si estende per 52 metri in larghezza, è il complesso monumentale più importante e meglio conservato della Cina. Il nome Città proibita deriva dal divieto di accesso che era stato imposto alla gente comune per circa 500 anni. Oggi, questo sito, conosciuto come Città Proibita, viene indicato, pure, con il nome di Museo del Palazzo o semplicemente con la definizione di Palazzo Antico. In passato, chi accedeva al complesso senza essere invitato, veniva immediatamente giustiziato.
Da Beijing mi sposto a Hohhot, in treno. Arrivo in questa bella città del Nord, situata nella regione della Mongolia interna, una parte della Cina che un tempo apparteneva al Grande Impero di Mongolia, di buon mattino. All’uscita della stazione ferroviaria trovo ad attendermi il taxista della guesthouse con il mio nome scritto su un cartello. Arrivata là, faccio subito amicizia con un giovane scrittore americano e con un simpatico ragazzo svizzero ed insieme decidiamo di visitare la Grande Muraglia che si trova nei dintorni. L’emozione che si prova a camminare sopra queste vecchie mura è fortissima; dall’alto si vedono ancora le buche rimaste vuote dopo gli scavi serviti ad estrarre il materiale per la costruzione della grande struttura. Il paesaggio intorno è prevalentemente collinare con delle vaste distese di prati e qualche raro cespuglio.
Qua e là si scorge qualche casupola con dei cavalli legati all’esterno; più in là, si notano molti campi con dei filari di sorgo ancora piccolo, ma molto curato. Lungo i sentieri incontriamo degli asinelli che si avvicinano a noi fin troppo amichevolmente. Nei giorni successivi della mia permanenza ad Hohhot visito, a volte da sola a volte con i miei nuovi amici, il centro storico della città. Prendo una bici a noleggio e raggiungo il monastero Dà Zhào e poi la Pagoda Wutà con i suoi cinque piani, di chiara influenza indiana, ultimata soltanto nel 1732. Torno più volte intorno alla Grande Moschea, costruita in stile cinese: devo rimanere all’esterno in quanto alle donne è proibito entrare. In questa zona i musulmani sono molto numerosi. Proprio lì, un giorno assisto ad una discussione molto animata, esplosa all’uscita dalla preghiera serale: intervengono subito le forze dell’ordine che riescono a sedare gli attriti attraverso il dialogo. I poliziotti, però, non se ne vanno se non dopo l’ultimo musulmano. Sarà proprio qui, a Hohhot, in un ristorantino accanto alla guesthouse, che imparerò ad usare i bastoncini senza provocare i soliti infiniti schizzi. Una ragazza cinese, vedendomi alle prese con dei noodles lunghissimi che mi cadevano continuamente nel piatto, prenderà la mia mano tra le sue e mi insegnerà il movimento da fare con due dita: per afferrarli e trattenerli.
Mi piace moltissimo viaggiare da sola, partire senza avere un itinerario preciso e con la possibilità di cambiare idea ogni momento, riguardo alle cose da fare e ai luoghi da visitare, ma non ho mai pensato di scrivere un diario. E’ questa la prima volta che prendo qualche appunto su come trascorro le mie intense giornate di vita vagabonda! Di tutti i viaggi realizzati fino ad ora non ho mai scritto nulla: ero convinta mi bastassero le fotografie e la memoria per ricordare tutti gli aspetti delle culture, dei paesaggi, delle persone incontrate. Ma non è stato così: i tempi e le situazioni si sono sovrapposti e affievoliti nel tempo e dei viaggi passati non è rimasto che un fievole ricordo lontano. Scrivere un diario mi avrebbe aiutata a mantenere viva l’esperienza, ma costituiva per me, un impegno troppo gravoso e, soprattutto, pensavo di non saperlo fare. Ero convinta di non essere capace di fissare con la parola scritta quello che vedevo con i miei occhi!
A circa un mese dalla mia partenza, dopo aver attraversato il Myanmar insieme alla mia amica Silvia era arrivato il momento di separarci, come previsto: lei se ne sarebbe ritornata a Roma, io sarei andata a Beijing, Pechino. Avrei proseguito il viaggio da sola, una condizione per me necessaria per riflettere e comprendere in profondità le situazioni.
Myanmar, incontri lungo i percorsi che portano ai numerosi templi di Bagan.
Era, forse, arrivato il momento di iniziare a prendere qualche appunto? Già prima della mia partenza dall’ Italia, Chiara, una mia amica sociologa, mi aveva proposto di scrivere qualcosa su questa avventura di centottanta giorni in giro per l’Asia. Allora, più che mai, mi era sembrata un’impresa impossibile!
Qualcuno, però, dice che basta cominciare e così è stato! Ho iniziato a sentire il bisogno ed il piacere di scrivere qualche dettaglio in più, in particolare dopo aver visitato la prima parte della Cina, quando sono arrivata in Mongolia, dove il contatto con un mondo ancora incontaminato non può passarti inosservato. Proprio là, nella selvaggia Mongolia, con i suoi grandi prati immersi nel silenzio, sotto sprazzi di cielo senza nuvole, in un campo di tende yurte mongole, sovrastato da un cielo immenso, illuminato soltanto dalla debole luce tremolante delle stelle, ho scoperto il piacere di scrivere.
Man mano che scrivevo riuscivo a ricordare sempre più dettagli dei momenti appena trascorsi ed anche a recuperare dalla memoria quello che era rimasto dei giorni, ormai da un po’ di tempo, passati.